VENEZIA #Fasezero – Capitolo IV “No, Grazie. Grazie, no”

27 Maggio 2020

“Orsù che dovrei fare?…
Cercarmi un protettore, eleggermi un signore,
e come l’edera, che dell’olmo tutore
accarezza il gran tronco e ne lecca la scorza,
arrampicarmi, invece di salire per forza?


No, Grazie!

[…]…Grazie… No!

E. Rostand
Cyrano de Bergerac
Atto II, Ottava Scena

Il paradosso della situazione vissuta da Venezia oggi è che – quasi integrando Montale e il suo:  Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” – prima di dire cosa fare, bisogna dire cosa NON bisogna farePiù.
Bisogna dire: “Basta”. Bisogna dire: “No, grazie.”

Da dove cominciare, quindi? Perché non cominciare dalla proposta artistica, culturale della città, visto che, nonostante i tanti parassiti che ancor banchettano sulla carcassa di una città stremata, è questa l’unica ragione per cui Venezia è il polo turistico per eccellenza?
Il turismo, la risorsa economica per antonomasia, è attratto a Venezia per il suo enorme patrimonio artistico. Un patrimonio che per il 99% è stato costruito armonicamente in funzione della città. Ma questo accadde fino a due secoli fa. Scusate, ho sbagliato: per il 99,9%.

Iniziamo a bonificare: Basta con la famosa “gente che sa“, che parla di Pittura senza saper dipingere, che diventa megafono di chi non sa parlare.
Basta con l’arte intesa come filtro sociale, ossia per pochi sedicenti eletti, dove il presidente di turno di una qualsiasi kermesse artistico/culturale trasforma Venezia in cornice inebetita di pseudo installazioni “artistiche” visitate solo dagli invitati al megaparty d’apertura.
No, grazie.
Basta con l’Arsenale trasformato in tinello avulso di cose che non sono nemmeno definibili.
Basta con le “performances”, le “installazioni” illustrate da fini dicitori del nulla, da traduttori barocchi che magnificano i pidocchi sui capelli dell’amata, o l’autoidolatria ostentata dall’artista alternativa “nomata con l’istesso patronimico del podestà dell’albionico Chelsea”.
Lo hanno già fatto Giambattista Marino e Anton Maria Narducci, quattrocento anni fa. No, grazie.

Qualcuno, ad esempio, dovrebbe dire all’artista conclamato che attacca una banana al muro con del nastro adesivo spacciandola come inarrivabile opera d’arte, che quel muro se lo deve costruire a casa sua, dove gli entusiasti di turno andranno a decine di migliaia a tributargli onore. Ma quel muro non dovrà essere a Venezia. No, grazie.
Basta con quelli che dicono, per darsi anch’essi il tono dei contestatori: “È una provocazione…”

L’etimologia di provocare è: “chiamare fuori”. Si provoca quando si vuole uscire dal coro, non quando tutti i sedicenti “provocatori” sono parte del sistema, lautamente foraggiati da esso. Sfigati giullari, che fingono di burlarsi del Re per ricevere da lui il tozzo di piazza, di museo o di teatro di “regggime”.
Se un tale mi provoca una, due tre volte, non adopero “lo schiaffo ed il pugno” dei futuristi, ma lo mando atarassicamente a quel paese.
Al suo paese. “Artista! Artista! Si è dimenticato della sua opera! L’unico frutto del’amor! La sua banana! Gliela incarto? Grazie”.

Qualcuno deve ancora spiegarmi il senso, la funzione e il numero dei visitatori dello spazio creato a Marghera in occasione dell’Expo di Milano del 2015.
Se hai Venezia a poche centinaia di metri, come puoi costruire un evento museale stanziale utopicamente alternativo alla proposta culturale di una città che, a livello mediatico, divora tutto ciò che le è attorno?
È un’idea giusta a livello teorico, ma alla fine contano i conti della serva, anche in casa dei Conti, intesi come nobili.
E in questi giorni la serva ha messo sul tavolo tutti i suoi foglietti spiegazzati con i numeri in rosso.
Come puoi accendere una lampadina vicino al sole e lagnarti perché nessuno la vede accesa?

In terraferma vanno creati eventi complementari, non aggiuntivi. È assurdo pensare che ci sia un fallout turistico internazionale in un museo “a tema” costruito oltre il Ponte della Libertà, in una città dinamica, attiva, che, con i suoi abitanti che sono veneziani a pieno titolo, è parte integrante di quella che fu la capitale di un Impero: la terraferma deve proporre tematiche completamente diverse per la popolazione residente, anche del centro storico, perché, quando lo ha fatto nel recente passato, queste iniziative hanno svolto ottimamente la loro Mission.
Quindi? No, grazie. Grazie, no.

E a proposito di contenitori di cultura, un pensiero per i luoghi ospitanti il patrimonio artistico per eccellenza, soprattutto a Venezia: le chiese.
Basta con i preti che gestiscono a loro piacimento i patrimoni artistici della chiesa in cui svolgono la loro missione. Oltre ad essere i custodi del gregge di anime della parrocchia, sono anche i custodi di ciò che nella chiesa è posto da secoli. Sono i custodi della memoria, della radice di una comunità. E devono lasciare a chi li sostituirà le cose come le hanno trovate. Qualunque ipotesi di cambiamento dell’arredo artistico deve essere sottoposta alla Curia. Dico questo alla luce di parecchi stravolgimenti riscontrati personalmente in alcune chiese storiche di Venezia che non mi spiego altrimenti. È come se il custode del Louvre spostasse la Gioconda per mettere il quadro del suo nipotino senza chiederlo al direttore. No, grazie. Le chiese di Venezia sono già state depredate abbastanza dei loro tesori in passato. Basta, a posto così. 

Torniamo a parlare della città, anzi delle due Venezie: di terra e di mare. Venezia centro storico non deve essere la sorella “figa” che presta gli abiti dismessi alla sorella “alternativa” Mestre. Siamo una città sola.
E io l’ho capito perfettamente quando ho dovuto subire un’operazione in Ospedale. In terraferma. All’Angelo. Consapevole del fatto che le risorse vanno ottimizzate.
Vale per la Salute. Vale per la Cultura. Vale per la Vita. Se ci fossero ancora i soldi che fino a ieri cadevano a pioggia, si sarebbe potuto ancora sparare qualche colpo a vuoto, ma qui si parla di trasporti tagliati, di acque alte devastanti, di incendi a prodotti chimici che divampano per inadeguatezza della prevenzione, di debiti enormi.
Qui si parla  di sopravvivenza. Non “anche” della Cultura, ma “specialmente” della Cultura.

Perché – esempio stupido ma comprensibile – solo nei talent di cucina la giuria giudicante è interamente formata da addetti ai lavori?
Non “assaggiatori”, ma veri capocuochi. Sì: capocuochi: non li definisco chef per non inturgidire ulteriormente l’ego di alcuni di loro, già provato duramente nella sua esistenza da decine di scodinzolanti concorrenti che urlano “signorsìssignore!” a ogni piè sospinto, neanche fossero al centro addestramento dei marines di Quantico. Ridimensioniamo queste personalità, questi “maestri di vita”.
La cultura sta creando sempre più chef multigiudicanti che, a differenza dei membri della giuria di Masterchef (che sono capocuochi, ripeto, non addestratori o filosofi), non sanno nemmeno cucinare un simbolico uovo alla coque. Non basta ossequiare, ad esempio, il Teatro di Carmelo Bene per comprenderlo appieno. Non basta dire “io ho pulito le scarpe all’artista” per diventare artisti per osmosi, specialmente se il tale a cui hai pulito le scarpe non è Carmelo Bene.

Sempre più si parla di Venezia senza conoscerla,
si alimenta la conoscenza virtuale e superficiale
senza far capire il senso reale delle cose.

Basta con le soubrettine dal maglione di protesta griffato chiamate a presentare/presenziare celebrazioni di sacrifici, di lavoro, di eroismo in Piazza, a Roma o a Venezia. No, grazie. Basta con questi artisti amici del politico di turno, definiti “di protesta e di controtendenza”, il cui tasso di impegno sociale è inversamente proporzionale al numero di stelle dell’albergo che li ospita. No, grazie.
Basta con questi nuovi guru della comunicazione, dagli occhiali ridicoli, facenti parte di un sistema ipertrofico, consueto, meccanizzato nel sistema e nei modi, che non hanno voglia di comprendere il sistema Venezia, il microcosmo Venezia, il pragmatismo di Venezia.

Venezia, che per il ponte di Rialto
scelse il progetto più funzionale di da Ponte
piuttosto che quello, inutilmente meraviglioso, di Palladio.

 

No, grazie. Basta agghindare la città come una vecchia bagascia, per offrirla al magna-magnate di turno, che si affitta a suon di milioni Palazzo Ducale per i suoi ricevimenti siliconati.
Basta parlare di nuove frontiere, di brand, di filiere… Format ripetuti fino alla noia da “specialisti del settore” capaci solamente di scrivere “Venezia” sulle parti da completare dei loro argomenti prestampati da anni: per loro ogni argomento è uguale, tutto è intercambiabile, anche i pezzi unici.

Se qualcuno mi sa dire un fenomeno di costume, il nome di un artista, di un’idea scaturita da Venezia nelle ultime edizioni delle infinite Biennali cui siamo costretti ad assistere e in qualche modo a finanziare assieme agli sponsor, gliene sarei grato. Fenomeni scollegati dalla città e dai suoi abitanti, utili solo a riempire le tasche degli autoreferenziati edonisti di professione. No, grazie.

Li ho visti al lavoro, questi signori con il loro maglioncino di cashmerino pastellino appoggiato sulle spallucce che da anni scrollano. Perché alla fine hanno bisogno del seme per far crescere la propria gramigna, enorme, radicata nel sistema Venezia.

Basta con questi “esperti di settore” che parlano di Venezia e della mia arte, l’arte dei miei antenati e che la mia famiglia si tramanda da generazioni, come parlano di fragole della California.
Che giudicano l’arte del vetro di Murano non conoscendone neppure la composizione.

Certo: per poter fare una megamostra sul vetro hanno ancora bisogno di chi lo fa.
E quindi, ma solo quando serve, chiamano me.
Hanno bisogno della bottiglia per posizionarci dentro il loro vascellino a vela fatto di niente.

Mi si dirà: ma parli sempre di vetro? Sì. Perché lo lavoro. Sì. Perché lo vivo, in un’isola che lo respira e che, come una droga, lo inocula nelle vene di chi la abita. Ogni giorno. Da secoli. E gradirei che chi tratta al massimo livello di una materia la sappia perlomeno concepire, plasmare, lavorare (che brutta parola) o che l’abbia vissuta come resilienza, come tradizione.
Chiedo troppo, lo so. Pensate che auspicherei che il Primario di un reparto d’Ospedale fosse perlomeno un medico, o quantomeno un suo parente…

Chiedo: Venezia la si conosceva prima del suo Festival del Cinema? Azzardo un sì. E Cannes? La si conosceva prima del suo Festival? Ma loro hanno i film che non ci piacciono, quelli che fanno incasso, mentre nel nostro Festival d’elite abbiamo la genesi della ripresa d’autore con il filtro del dottor Spock sull’obbiettivo Zeiss. Salvo poi vedere i fotografi sgomitanti ad attendere il taxi all’Hotel Excelsior con il belloccio americano di turno, protagonista del film di cassetta ospite. 

Basta.
No, grazie.

(Continua…)

P.S. “Che qualunquista! Che demagogia!” “Ma dove vuol andare a parare?” Frasi da esclamare a piacere a riga 12, 22, 37,59, 60 e alla fine di questo capitolo.
Dove voglio andare a parare? All’incrocio dei pali. Perché Venezia è talmente unica, che anche solo NON facendo più ciò che è scritto di NON fare più, si sarebbe comunque fatto qualcosa. Di buono. 

    3 Comments

  • Sabrina Tamanini 28 Maggio 2020

    Leggo i tuoi pensieri e li condivido a pieno anche se io non saprei scriverli così bene, delicati ma pieni di rabbia. Io sarei piuttosto terra terra. Solo mi dispiace di tutta questa rabbia che tuttavia capisco essendo pure io piena di rabbia. Mi sento di dirti “passerà”, sarà molto lunga ma prima o poi, non si sa come, ma passerà.
    Un abbraccio.

  • Mariano 28 Maggio 2020

    Mi hai strappato un sorriso.
    …e un paio di lacrime.

  • Fabio 28 Maggio 2020

    Molto bene Marco, quello che provi a dire é molto difficile, ma mi sembra che tu lo stia facendo bene, con cuore ed equilibrio.

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