#FaseZero – Cap VIII “Venezia, Ilio”

25 Giugno 2020

Cantami, o Diva, del pelide Achille
l’ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi,
e di cani e d’augelli orrido pasto
lor salme abbandonò

 

Proemio dell’Iliade di Omero

nella traduzione di Vincenzo Monti

 

“Quello in cui l’autore, cogliendo similitudini e concordanza accomuna nel disegno divino il morbo di Apollo e quello dal Catai”

Tante parole, in sette capitoli. Il cammino si compie, la Ragione elabora. Ma non solo la realtà prende coscienza. Il buio avanza, ed è il regno del sogno. Il tempo del Mito (1). Venezia, tu. Ilio moderna. Madre lacrimosa ritratta in foto ingiallite, “strattenute” all’album da triangolini non più adesivi. Inutili come i tuoi figli (2).

Qui. Un salone affrescato d’un palazzo un tempo riflettuto dalle amniotiche sinapsi, svuotato oggi d’ogni arredamento secolare.
Eco fatta di suono, di vuoto, di stonata rimembranza.
La presenza umana d’un tempo, accennata nelle tracce consunte di un pavimento di pietruzze intarsiate.
La vergogna della memoria cancellata nella sua presenza. Tutto è asettico, spersonalizzato (3).

Lì. Una grande chiesa, sconsacrata dall’oblio, che ha sfrattato Dio per dimenticanza.
Lo ha messo in strada, accatastando panche e candelabri in qualche sacrestia, complice del matricidio.
E, al centro del salone. E, nel mezzo della chiesa. Mostruosamente eretto, come irrorato d’eccitazione bestiale e diabolica, il grande simulacro della scultorea blasfemia (4).

 Timeo Danaos et Dona ferentes (5)

Tu, cavallo deforme d’inganno. Enorme. Colorato d’assurdo. Non drago, ma mostro risorto in un San Giorgio minore (6).
Non formula, ma rito. Solo megalomica sfida all’alveo divelto, fiume in piena della (s)ragione.
Schifo spacciato per meraviglia. Bestemmia contrabbandata per preghiera.
Arte? Moderna? Neologismo analfabeta.
Temo chi ti spaccia per regalo, chi porta il suo ego come un microbo virulento a contagiare la Storia (7).
Vile chi lo accetta, canaglia chi lo aiuta.
Patroclo, non indossare la mia armatura.
Scendo io in battaglia. Non morrai certamente per sbaglio. Vivrai forse per scelta (8).

 

NOTE

(1) L’autore di sicuro si è stancato di parlare chiaramente e, spinto dalla voglia di apparire misterioso e probabilmente per sembrare profondo – cosa non vera – inizia a usare a sproposito termini oscuri di cui nemmeno lui conosce pienamente senso e significato. Inizia citando il numero sette. Sette i capitoli, come sette sono gli anni trascorsi i quali si manifestano le crisi. Imputa alla ricerca del Mito la scarsa verve creativa di questo capitolo, nemmeno troppo nascosta.

(2) L’ardita metafora prende faticosamente forma. Dopo la puerile citazione iniziale, dove Omero, o meglio Vincenzo Monti, fanno intravedere “l’orrido pasto d’eroi”, ossia i caduti per la peste scagliata sui greci da Apollo, l’autore paragona Venezia e il Coronavirus alla situazione raccontata nel proemio dell’Iliade. Dunque, con un paragone “di rimbalzo”, Venezia e Troia sono intese come città sconfitte.

(3) L’inutile e lezioso gioco continua. Viene citato un palazzo come simbolo dei tanti altri messi a disposizione dalla città festante per le ardite e meravigliose installazioni che tante soddisfazioni hanno dato ai cultori della cultura. Notate come l’autore adoperi il termine “riflettuto” e non “riflesso” per far intendere che ci sia una sorta di progetto nell’architettura cittadina veneziana. Il concetto di “amniotiche sinapsi” usato al posto della consueta “acqua del canale”, nelle intenzioni pretenziose dell’autore vanno a rafforzare il tentativo di far intravedere un’inesistente armonia di progettualità da parte di chi ha costruito – sicuramente, a caso – nel passato la città di Venezia.

(4) In queste righe l’autore, probabilmente ubriaco o preda di sostanze stupefacenti, lascia intravedere un suo leggero disappunto per presunte spoliazioni di chiese a favore di valorizzazioni d’ambiente. Non è chiaro cosa significhi “…il grande simulacro della scultorea blasfemia…”

(5) Qui l’autore, proseguendo nell’insano gioco delle somiglianze tra Venezia e Ilio, cita il troiano Laocoonte che, vedendo il cavallo che i greci lasciarono sulla spiaggia, disse: “Temo i greci anche quando portano i doni”.

(6) Niente: l’autore non la smette con il suo delirio. Continua con i paragoni, con le metafore.  “Tu, cavallo deforme d’inganno. Enorme. Colorato d’assurdo…”. Paragona il cavallo che ingannò i troiani alle opere che umilmente sposano a meraviglia il senso e la storia dei palazzi e delle chiese veneziane. Specialmente le chiese, specialmente San Giorgio Maggiore, la chiesa con il diesis.

(7)  “Temo chi ti spaccia per regalo…” Palese rimando alla citazione di Laocoonte. Siamo messi di fronte all’assurdo: le elaborazioni delle citazioni. Capite anche voi che siamo alla frutta. Alla banana attaccata al muro. Artisti…

(8) Questa ultima, pleonastica frase, questo citare a vanvera Patroclo fanno capire che l’autore, nel voler fermare l’accidentale uccisione dell’amico, intende assumersi appieno la responsabilità della lotta.

Sì: ricordiamolo. Bene fa chi scende in battaglia in prima persona. Perché “chi si estranea dalla lotta è un gran fio de ‘na mignotta”.  

    2 Comments

  • Mariano 25 Giugno 2020

    Per rimanere in tema epico, vorrei sottolineare che i nostri lutti dipendono poco dal valore degli Achei e molto dalla codardia dei figli di troia (andava con la maiuscola?).

  • Paolo 25 Giugno 2020

    La prima parte , trapoesia e ironia, mi aveva lasciato nello stupore e nel dubbio di una possibile incipiente “insania”. Nell’autoesegesi del testo si chiarisce tutto , mantenendol’ironia ma affondando l’assalto. Traspare una chiara intenzione di ” scendere in campo” … osbaglio?

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