Venezia #FASEZERO Cap. II – “La Venezia di un tempo”

20 Maggio 2020

La Venezia di un tempo, dicevo…

Non fermate schifati o non continuate eccitati e pieni di nostalgiche aspettative la lettura in base alle vostre idee politiche: non sono un revanscista, o un illuso che auspica il ritorno della Serenissima o delle candele al posto delle lampadine. Anch’io ritengo che il motore a scoppio sia preferibile come rendimento alla quadriglia di cavalli, non fosse altro che non ho palette adeguate per i loro bisognoni.

Io affermo che la Venezia del passato
deve aiutare la Venezia del presente
a diventare quella del futuro. 
Remoto.

La Venezia che immagino domani
deve essere VENEZIA, non #@madeinvenice.

Unita alla sua terraferma irrorata dalla propria, naturale essenza, Venezia è sempre stata un diverso pianeta sulla terra, un universo a sé stante che ha modificato nei secoli il corso della storia (sorse quando l’impero romano crollò, creando un’oasi di divergenza rispetto al mondo circostante attraversato da decine di invasioni nei secoli), della natura (rese abitabili isole sperdute, piantò milioni di pali per erigere palazzi e case, deviò e convogliò fiumi per preservare la propria laguna, costruì barriere artificiali per difendersi dal mare).

Fece di tutto per impedire che il mondo circostante la “contagiasse” nella mente e nei corpi dei suoi abitanti.
E lo fece, paradossalmente, senza chiudere mai le sue porte, nemmeno in tempo di guerra.

Venezia fu porto aperto, di persone, di arte e di cultura, ma ogni “alieno”  ci doveva fare i conti, doveva porsi al cospetto di essa con rispetto, addirittura con timore.
Venezia divenne un alibi, etimologicamente parlando, ossia un “altrove”.
Venezia fu anche pittura, e non occorre scomodare il famoso storico dell’Arte Bernard Berenson per affermare senza timore che la Scuola veneta fu tra le maggiori nel mondo, in ogni epoca: Tintoretto, Tiziano, Canaletto, Veronese, i Tiepolo, solo per citare quelli che si possono numerare di primo acchito, con l’ausilio di una sola mano (anche se per i Tiepolo serve un dito in più…).

Venezia fu anche Musica: Zarlino, Vivaldi, Lotti, i Gabrieli. Fu la Cappella Marciana, che fece diventare stilisticamente veneziani anche i musicisti “foresti”: Willaert, Monteverdi, Hassler, Legrenzi.
Venezia fu anche letteratura, sia narrativa che teologica, oltre che scientifica. Fu Goldoni, Tassini, Cicogna, Sarpi.
Venezia fu anche architettura: Longhena, Palladio, Sanmicheli.
Venezia fu anche libertà di stampa, fu stampa multiculturale del sapere, fu Aldo Manuzio e le mille altre tipografie della Serenissima.
Venezia fu anche impulso e tutela al commercio (la prima legislazione europea sul brevetto era veneziana).
Venezia fu anche Murano e Murano non era “un” vetro, ma “il” vetro nel mondo.
Venezia fu anche avanguardia sanitaria (i primi Lazzaretti – esempio calzante in tempo di pandemia – furono veneziani, tanto da diventare addirittura etimologia: il nome deriva dal primo sito in laguna individuato per la quarantena, l’isola di Santa Maria di Nazaret = nazzaretto, che, unendosi al nome del risorto per antonomasia, Lazzaro, divenne infine lazzaretto).

Venezia, quindi, “fu” per essere “sarà”. E non si pensi che questo sia un freddo inventario al solo scopo di arido sfoggio culturale (oddio, anche sì…): ogni singolo nome, ogni singola storia è un argomento, è un mattone portante, una pietra miliare di ciò che rimane del “Monumento” Venezia oggi.
Un Monumento che non è un Moloch, ossia la creatura che nell’immaginario collettivo è enorme divinità senza ragione, senza identità, senza vita propria.
Venezia deve essere monumento vitale.
Un Monumento attivamente percorso dai suoi abitanti, che devono essere il sangue che scorre, pulsante, ogni giorno.
Abitanti che devono essere memoria e futuro.

Immagino Venezia come attiva scelta aprioristica, non conseguenza passiva dell’intorno, infinitamente più grande, infinitamente più forte.
Non più organismo fragile che si adatta all’esterno, non più Don Abbondio, ossia vaso di coccio tra vasi di ferro, com’era fino a due mesi fa.

Dobbiamo ribadire ogni giorno
– Venezia, i veneziani, chiunque ami Venezia –
che è il futuro che deve cambiare, non la città.

Perché quando il futuro non cambia diventa Futurismo.

E allora si vogliono cementificare i canali per far scorrere “gli automobili”, come il buon Marinetti, teologo del movimento omonimo, auspicava.
Quando il futuro diventa Futurismo si scavano i canali delle petroliere, si allestiscono gli  impianti chimici a un tiro di sputo, pardon, di scarico nella laguna.
Si permette che un incendio devastante allarmi una città delicata come un merletto.

Quando il futuro diventa Futurismo, si fanno passare i transatlantici davanti ai castelli di carta, davanti a Palazzo Ducale, davanti alla città più fragile del mondo.
Quando il futuro diventa Futurismo si parla di migliaia, di decine di migliaia, di migliaia di migliaia di posti di lavoro (molti di essi sottopagati) altrimenti perduti se non si permette a un crocierista di mangiare il suo hot dog sul terzo ponte del Mega Titanic, dominando carnalmente l’isola di San Giorgio.
Si porta il formichiere in mezzo alle formiche sperando che la sua lingua sia corta, o che abbia poca fame.

Quando il futuro diventa schifoso, lo si trasforma in presente.
Si trasforma VENEZIA in #@venice,
disperata maîtresse che non trova abbastanza amanti prezzolate
per le infinite carovane di turno…
che non ci sono più, chissà per quanto tempo ancora.

Ah, dimenticavo: Venezia fu anche lingua, non dialetto: per capire questa città bisogna impararne la lingua, impastata ai mattoni delle calli, delle case…

Chi vuole aiutare Venezia deve darle il ruolo che le compete.
E Venezia cambierà il Futuro del mondo.

Ah, dimenticavo anche: questa è solo la premessa.

Continuo?

MTB

    One Comment

  • Gabriella Fabbri 22 Maggio 2020

    Molto interessante…condivido e conto sul seguito.

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