25 Aprile 2020

25 Aprile 2020

25 Aprile 2020

Murano, Campo San Bernardo. La fontana arida, come la vita intorno.
Era lì, seduta su una panchina scrostata dai tanti pomeriggi di sole.
La mascherina le copriva il volto, lasciando trasparire solo le rughe che le abbracciavano gli occhi.
Che mi fissavano, mentre percorrevo svogliato quelle pietre piene di storie.

Era la posizione che la tradiva. Stanca.
Forse stava ridendo…

Ma la fascia verde di stoffa che avrebbe dovuto proteggerla, oltre a nasconderle la bocca, arrivava giusto a coprire la parte del volto che avrebbe potuto essere irrorata dalle lacrime.

Forse stava piangendo…

Mi stava sempre guardando. Mi ero fermato davanti a lei, svogliato.
Aveva accanto il lasciapassare: un carretto sgangherato per la spesa.
Era vuoto ma, con quell’affare vicino, nessun poliziotto, neanche il più ottuso, le avrebbe chiesto di mostrare la quinta o la sesta versione del lasciapassare ufficiale, stampato per l’ennesima volta con cura dal nipote che l’aveva fatto scivolare sotto la porta, qualche giorno prima.

“Buongiorno” le dissi, quasi obbligato dall’insistenza del suo sguardo. Il suono era ovattato dalla maschera nera che indossavo.
“Buongiorno” mi aveva risposto con voce squillante, aggiungendo subito “Che brutto colore ha quella maschera che ha addosso. E’ il colore che indossava il male tanti anni fa, quando nacqui… Oggi è un giorno speciale per me, sa?”
“Perché, signora?” Stavo fingendo interesse: bisogna fare così, con i vecchi.
“Perché è il mio compleanno: 75 anni, vissuti di un fiato, a guardar crescere i miei figli, e i loro figli, e i loro fratelli di questa patria.”

“Ah, certo” dissi io ” Auguri! Certo: forse è il momento peggiore per festeggiare, con questo maledetto morbo che ci impedisce di stare insieme”.

“Non importa, sa: mi son destata stamane, piena di voglia di vivere comunque: lo vede quel cappello?”
“Questo, signora?” le avevo chiesto stupidamente, dato che c’era solo un vecchio cappello sbilenco che la donna aveva appoggiato sopra la borsa bianca sgualcita, tanto antico da sembrare una specie di elmo.

“Sì. Quel cappello me lo regalò tanti anni fa un mio spasimante… Scipione, si chiamava. Lo indosso ogni anno, il 25 di aprile, per festeggiare e per ricordarlo. Il padre era un grande appassionato di storia romana, perché era originario da lì’. Si chiamava Goffredo. Eh sì, i nostri bambini non li chiamiamo più così. Goffredo… tanto pigro da martoriare ogni istante la moglie, trattata come una schiava, per chiederle questo o quello. Lei non ne poteva più. Pensi: era arrivata al punto di nascondersi o di non ascoltarlo per tutta la giornata. E lui la cercava, la chiamava, fino alla sera… “Dove sei? Dove sei? Vittoria! Dove sei? E lei gli appariva alla sera, quando si apprestava ad andare a letto, pettinandosi con una spazzola cinese di ebano la lunga chioma. “Sono qui, Goffredo. Andiamo a letto?”

La signora aveva fermato il suo racconto di colpo. Guardava il vuoto di vita che ci circondava. Non c’era nessuno.
Io non sapevo cosa fare. Non mi pareva tanto lucida, anche se le sue storie strampalate dovevano avere un senso. Quasi quasi, mi dicevo, ne approfitto e me la sv…

“E’ il mio compleanno oggi, lo sa?”
“Sì, signora.” Avevo risposto con rassegnazione. Lei riprese:
“E allora non dovrei essere felice, perché c’è la paura del contagio, ma…”
“Ma è il suo compleanno…” Avevo alcuni bòcoli in mano, per onorare una festa solo con la forza delle abitudini.
Le porsi il più piccolo, con un calcolo stupido da mercante.
“Oh! Che meraviglia! Grazie, signor…”
“Marco. Mi chiamo Marco. Oggi è anche la mia festa”
“Eh, sì…” Mi aveva sorriso. O forse no. Riprese a parlare:

“Dobbiamo affrontare questo nuovo nemico invisibile. Dobbiamo stringerci, come fratelli. Dobbiamo esser pronti alla…”

Mi stava suonando il telefono, interrompendo la voce di quella donna con la più stupida soneria del mondo. Era mio cugino… Mi ero girato, distogliendo lo sguardo da lei, per una sorta di stupido pudore.
“Grazie. Grazie. Sì. Tutto bene… Sì. Finirà… Ciao. Ciao. Sì! Sì!”

Mi girai verso la signora
La panchina era vuota.

Al posto della vecchietta, la maschera di stoffa verde, la bianca borsa sbilenca, la rosa.

Non poteva essere scomparsa. Non così.
Mi ero accorto di non averle nemmeno chiesto il nome.

A terra, il cappello, antico come un elmo. Lo raccolsi. Dentro, incastonato nel nastro, un biglietto, velato dal tempo.

Lessi…

“Alla mia amata

Italia”

 

MTB

 

italia